Radio in vetta – primo capitolo

Il silenzio della neve è diverso. È avvolgente, intenso. Assoluto. Sotto il suo manto, la neve nasconde emozioni, sogni, passioni del mondo che abbraccia. Lo culla, lo fa riposare. Lo protegge, fino a primavera.

 

 

– No, li ho persi di nuovo – pensò provando a lavorare sulla manovella della radio. – Se li perdo adesso… – e un brivido gli corse lungo la schiena.

Il fruscio di sottofondo aumentò ancora, improvvisamente. Quel rumore costante, infinito, gli stava entrando nella mente, non riusciva più a sopportarlo. Sembrava che le voci fossero diventate più chiare, il segnale più limpido. Ancora quella perturbazione. Si mosse sulla sedia, prese la tazza di caffè caldo. Si strofinò gli occhi, guardò l’ora. Era notte fonda, gli facevano male gli occhi e la schiena. Aveva dimenticato quando era andato a dormire l’ultima volta. Si allungò, provò a sgranchire le gambe. Poi prese di nuovo la manopola dell’amplificatore, la mosse leggermente per cercare la frequenza. – Li ho persi di nuovo, ne sono certo – imprecò. Provò a fare qualche chiamata con il microfono. – Mi sentite? Ci siete? – chiese un paio di volte. Nessuna risposta. – Ehi, dove siete finiti? -, riprovò. Ancora nulla. Era finita la batteria, forse colpa del maltempo, forse… No, o volle neppure pensarci. Riguardò l’orologio, erano ormai parecchie ore che erano bloccati lassù. La temperatura era scesa ancora, la tempesta stava scaricando tutta la sua rabbia. Tolse le cuffie, ascoltò il vento, fuori. Le finestre lottavano contro i fiocchi di neve che, ormai diventati ghiaccio, venivano sbattuti. Un ballo che sarebbe durato ancora molto, secondo le previsioni. Ma erano certezze vaghe: erano state le stesse previsioni a non vedere la tempesta, e forse nemmeno sapevano ancora cosa sarebbe potuto succedere. Sentiva freddo, non aveva ancora acceso il riscaldamento. Prese una coperta, la mise sulle gambe. –  Cosa diavolo sta succedendo-, non riusciva a smettere di pensare. Dove diavolo erano finiti tutti? Non c’era più tempo per aspettare.  – Mi sentite, io sono ancora qui. E voi? – disse ancora, provando a scuotere gli animi delle persone ferme lassù, in alto, in un luogo che lui aveva visto solo di giorno. Non riusciva nemmeno a immaginarsi le condizioni in cui erano, e più passavano le ore, più la situazione diventava critica. Cambiò frequenza, controllò che quelli del soccorso si stessero muovendo. Sobbalzò quando sentì la voce dell’uomo, ferma, quasi senza sentimenti, dire che la strada era stata bloccata da una slavina e che era impossibile passare con i mezzi. Di mettersi in marcia nella notte sotto quella tempesta non se ne parlava neanche, e tantomeno usare il soccorso con gli elicotteri. Se non ci fosse stata la slavina, le squadre sarebbero arrivate nella notte, avrebbero preparato le attrezzature e prima dell’alba si sarebbero mosse per raggiungerli. Per quelli lassù si sarebbe trattato di sopravvivere per qualche ora, un obiettivo non così impossibile, e probabilmente ce l’avrebbero fatta. Ma con questo nuovo problema tutto si complicava. Non sapevano nemmeno cosa sarebbe successo il giorno successivo. Ma le preoccupazioni che sentiva, il cuore esplodere nel petto, l’ansia, sembravano sentimenti lontani da chi era dall’altra parte del microfono. Probabilmente per loro era un’operazione come tante altre, un numero. Una pratica da eseguire. Se si fossero appassionati a ogni salvataggio o, peggio, a ogni persona non salvata, sarebbero già impazziti. Sì, pensò, da parte loro questo distacco è sensato, anzi, necessario. Ma non per lui, che si era trovato lì per caso, coinvolto in un’operazione che non sapeva come gestire. Non riusciva a smettere di pensare a loro. Forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi e dormire qualche minuto per riprendere le energie. Ma se loro lassù non dormivano, non doveva mollare nemmeno lui. In qualche modo si sentiva loro compagno, loro amico. Seduto vicino a loro, vivendo le stesse sofferenze e la stessa paura. Guardò di nuovo l’ora, gli sembravano passati secoli, e invece erano solo pochi minuti. Fuori, ancora, buio. Solo le ombre del lampione, accompagnate dal vento, improvvisavano un ballo. Ne seguì le mosse con gli occhi. Prese un pacchetto di sigarette, ne accese una distrattamente. Si avvicinò al microfono, non voleva mollare. Avrebbe provato e riprovato finché qualcuno non avesse risposto. E se anche la sua voce fosse stata solo di compagnia, sarebbe andato bene lo stesso. 

 

– Ok ragazzi – iniziò – visto che voi non volete rispondere, e siamo tutti davanti a una notte che sappiamo sarà molto lunga, tanto vale tenerci compagnia, no? Spero che ci sia almeno uno di voi all’ascolto, altrimenti farò la figura dell’idiota per il resto dei miei giorni… parlando a un microfono senza nessuno dall’altra parte. Ma voglio rischiare perché tanto non ho niente da perdere. E visto che in qualche modo siamo diventati compagni di questo viaggio, non essendoci mai visti in faccia vi racconterò qualcosa di me. Lamia vita, cosa mi è successo. E anche se non ve ne frega niente, non importa… avete due possibilità: o rimanete ad ascoltare, o aprire la porta e tornare giù… a voi la scelta – e staccò il dito dal microfono. 

 

– Non ci muoviamo da qui – sentì un filo di voce uscire dal piccolo amplificatore. Allora qualcuno di vivo ancora c’era. Aveva la voce debole, quasi la risposta fosse stata data da un moto di orgoglio, uno sforzo estremo. Un bagliore di energia giunto da chissà dove. Non disse nulla sul ritardo dei soccorsi; se avessero perso la speranza, e con quella notizia l’avrebbero fatto di certo, non avrebbero più lottato. La situazione era disperata, ma era la loro unica ancora di salvezza. Nel silenzio e nel buio in cui erano, immaginava, tremando al freddo, ciò che avevano era solo la sua voce. Un lungo loop di parole, che forse nemmeno ascoltavano. Ma sentire una voce umana gli ricordava di non essere ancora morti. Tirò un lungo fiato, aspirò la sigaretta e, mentre il fumo usciva dalle labbra e dal naso, si sistemò sulla sedia. Bloccò il microfono per le lunghe dirette, e iniziò a parlare.